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N'Djamena

Cara Elisa,

non dimenticherò mai quella notte. Stavo guidando un’auto attraverso i quartieri di una città fantasma addormentata, in un Paese africano devastato dalla guerra civile. All’uscita d’un ospedale, vidi un giovane soldato con una bambina. Stavano chiedendo un passaggio per ritornare a casa. Mi fermai e li feci salire.

Era un soldato della guardia presidenziale. Doveva avere non più di diciotto anni ed era elettrizzato per il fatto di essere stato trasportato nella macchina di un bianco di passaggio. Parlava pochissimo francese, si esprimeva in un arabo dialettale, ma ci intendevamo a gesti. Era tanto eccitato che mi sequestrò per tutta la notte, portandomi da un quartiere all’altro, per farmi vedere alla sua famiglia e ai suoi compagni, e per ringraziarmi pensò di offrirmi un dono, qualcosa che lui chiamava: un bubù. Si trattava di una grande scimmia. Qualcuno della famiglia l’aveva visto su un albero e gli aveva sparato, e ora il piccolo soldato pensava di regalarmelo, per farmi apprezzare quel cibo delizioso. Il soldato non riuscì più a trovare la scimmia, che i suoi parenti avevano già consumato. Ma ora, nel ricordo, distinguo chiaramente la pelle nera e la testa dell’animale, con occhi opachi che mi affrontano, da un passato che per me è sempre presente.

Oggi, di quella città rimane un enorme campo di rovine, in cui si scontrano gruppi armati di bambini, quasi ogni giorno.

Sogno ancora, però, che tu mi stia aspettando, dietro una persiana di legno di sandalo, nel profumo intenso dei fumi d’incenso e dei fiori di jacarandá. Mi accoglierai con un semplice cenno del capo e un gesto affettuoso della mano, come se fossi uscito da poco, per andare a prendere il pane, o la frutta al mercato. Come qualcuno della famiglia, del quale conosci l’andatura, il profumo, la sagoma quando s’allontana e il rumore dei passi quando ritorna.

Ci sarà ancora un soldatino che vuole regalarmi un bubù, da cucinare per cena?

 

Alberto

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