Basta, basta. Non voglio più sentire
Raffaele Riba è nato a Cuneo nel 1983. È tra i curatori di scrittorincittà, lavora come editor e insegna presso la Scuola Holden. Oltre a racconti su riviste e miscellanee, ha pubblicato i romanzi: "Un giorno per disfare" (66thand2nd, 2014); "Abbi pure paura" (Loescher, 2015); "La custodia dei cieli profondi" (66thand2nd, 2018).
Caro il mio Tommaso buon compleanno,
queste parole sono una via di mezzo tra un biglietto d’auguri e una lettera che ti arriva in un giorno più simbolico che altro. Sai che lo zio non è un amante convinto di simboli e ricorrenze, però non sai che ha aspettato esattamente 14 anni e 44 giorni per restituirti quanto segue – quindi una certa soggezione per la forma, tuo zio, la deve comunque avere.
Sia quel che sia. Era il 13 aprile del 2020, non avevi ancora quattro anni e il mondo era nel pieno della pandemia da corona virus. Era Pasqua, e tua madre mi ha chiamato nel tardo pomeriggio per un saluto. Avevo appena finito di fare una passeggiata del tutto illegale in un quartiere sopra casa mia, tra il verde e la collina Torinese con Cyrano - chissà se te lo ricordi quel cane nero al garrese alto come te. Non ci giocavi spesso, soprattutto perché non ci vedevamo spesso; e in quel periodo ancor meno.
Voi, tu e tua mamma, eravate sul terrazzo di casa vostra, in un’altra città. Era una bella giornata, lei seduta sulla sdraio tu che giocavi con i regali che ti aveva portato il Coniglietto. Come spesso tua mamma faceva girando la telecamera, ti coinvolge nella conversazione: saluta zio Raffaele e via dicendo, e poi ti chiede di dirmi che cosa avevi ricevuto e tu enumeri i due o tre doni che ho perso nei meandri di una connessione scadente (anche se uno, mi pare di ricordare, fosse un elicottero). Poi arriva una seconda domanda, fatta ancora una volta a te da tua mamma a beneficio mio: un modo allo stesso tempo abbastanza dolce e abbastanza crudele di tenere vivo un legame zio nipote.
E qui arriva il punto fondamentale di questa lettera d’auguri scritta pressappoco in 5.154 giorni: alla seconda domanda ti sei tappato le orecchie con le mani e hai detto con la voce stridula ma decisa del bambino che eri: «basta, basta. Non voglio più sentire».
Ci sono rimasto male, devo dirti la verità: mi ha intristito molto sul momento (eravamo tutti deboli e suscettibili in quei giorni), ma stavo valutando il mondo con l’atroce sicumera degli adulti, esercizio che a quel tempo facevamo tutti quanti con una certa, pericolosissima, goffaggine.
Allora tua madre, ha girato la telecamera verso di sé e mi ha spiegato che era una cosa che avevi cominciato a fare da qualche giorno, dopo più di un mese di quarantena e videochiamate di parenti e insegnanti.
Ecco, ti scrivo per restituirti questo gesto che mi ha fatto pensare per giorni (5.154); per ri-regalarti un regalo amarissimo che mi hai fatto tanti anni fa.
Lascerò volentieri da parte tutti gli aspetti che riguardano la purezza dell’essere bambini. È un dato di fatto e a ciò nulla io posso aggiungere. Anche perché la caratteristica principale di quel gesto ha sicuramente in sé un certo grado di purezza, ma soprattutto ha un massimo grado di decisione e di tendenza alla magnifica arte del sopravvivere. E come ogni gesto di quel tipo va bene per tutti: per tutte le età, tutte le condizioni sociali, tutti i generi e le etnie, tutti gli esseri viventi.
Andava bene per te, perché chi sa in che maniera notavi l’incongruo dialogare di quel periodo, l’incongrua mancanza di fisicità di quel periodo. Chissà cosa non potevi ancora mettere in relazione tra una figura pixelata male e il congegno di massa corporea e tatto e odori che stava lontano da te e dalla tua biosfera e che apparteneva al mondo che in quel periodo ti facevano stare a distanza. Immagino che per un bambino di tre anni, con una ristretta esperienza affettiva e un piccolo bagaglio di memorie, fosse difficile caricare una video chiamata di tutta l’essenza dell’essere zii, o nonni, o maestre e che invece loro, noi, potevamo per così dire mettere a servizio (ingigantendole di significati, di amore) di tutte quelle figure spettinate e stanche che in quei giorni affollavano i nostri telefonini.
E andava bene anche per me, quel gesto, perché era il gesto che istintivamente sentivo di dover fare di fronte a tutte le ipotesi, le testimonianze, le raccomandazioni, le proiezioni di medici, matematici, premi Nobel, infermieri, giornalisti, politici, quarantenati stanchi, quarantenati sofferenti, malati risorti, morti.
Tapparsi le orecchie, voltarsi, andare via. Un comportamento che avevo sempre ritenuto miope, insufficiente, pavido. Tu me l’hai risignificato e così ci ho visto invece forza, autonomia, estremo coraggio e coscienza di sé. Non era “non ascoltare” il fuori, era invece “sentire” il dentro: e in particolare il rifiuto di concedersi al casino che il mondo stava facendo. Una quarantena ecologica, pulita, pura che ha permesso a te di far crescere bene quel corpo, ora quattro volte più grande di allora, e a me di restituirti questo insegnamento; oggi che compi 18 anni.
Quindi auguri, caro il mio Tommaso. E grazie.
zio Raffa,
23 maggio 2034